mercoledì 29 maggio 2013

Quaderni di Serafino Gubbio Operatore

Questa settimana tratto dell’altro romanzo da me letto: Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, opera del premio Nobel per la letteratura nel 1934 Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936).
Inizialmente pubblicato nel 1916 col titolo Si gira... e successivamente riveduto col nuovo titolo nel 1925,  affronta direttamente i temi della macchina e dell'età contemporanea.
Il romanzo narra la vicenda di Serafino, un cineoperatore della casa cinematografica Kosmograph che quotidianamente annota in un diario tutti gli avvenimenti che riguardano quelli che lavorano nel suo ambiente e soprattutto la storia di un'attrice russa, Varia Nestoroff. Inizialmente il protagonista viene ospitato in un ospizio di mendicità a Roma che il suo amico Simone Pau chiama albergo. In questo ospizio conosce un violinista che si è ridotto ad accompagnare un pianoforte automatico e che infine non suona neanche più ma beve solo. Serafino si sente totalmente alienato dal suo lavoro tant'è che poi afferma: "Finii d'esser Gubbio e diventai una mano". Nella scena finale del romanzo Serafino riprende meccanicamente con la sua cinepresa una scena terribile: Aldo Nuti sta girando una scena in cui deve uccidere una tigre; tuttavia, invece di rivolgere l'arma verso l'animale, egli uccide la Nestoroff. Rimane però ucciso a sua volta, sbranato dalla stessa tigre. Serafino, che sta filmando la scena, diviene muto per lo shock e rinuncia ad ogni forma di sentimento e di comunicazione.
Come per il precedente romanzo riporto i passi della vicenda che ho trovato più significativi.
Serafino Gubbio, le macchine e la modernità
I
(…)
13 Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là. - No, caro, grazie: non posso! - Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare... - Alle undici, la colazione. - Il giornale, la borsa, l'ufficio, la scuola... - Bel tempo, peccato! Ma gli affari... - Chi passa? Ah, un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato. - La bottega, la fabbrica, il tribunale...
Nessuno ha tempo o modo d'arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l'altra facciamo un gesto da ubriachi.
- Svaghiamoci!
(…)
36 Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono frequente in America, di uomini che a mezzo d'una qualche faccenda, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io - modestamente - sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
(…)
II
81 Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
(…)
114 Che cos'è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.
C'è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscìo continuo della carrùcola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.

L’ “uomo del violino”

– Serafino, – disse, – ti presento un grande artista. Gli hanno appiccicato un nomignolo schifoso;
ma non importa: è un grande artista. Ammiralo: qua, col suo Dio sotto il braccio!
Potrebbe essere una scopa: è un violino.
Mi voltai a osservar l’effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello sconosciuto. Impassibile. E
Simone Pau seguitò:
– Un violino, per davvero. E non lo lascia mai. Anche i custodi qua gli concedono di portarselo a
letto, a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati. Ma non c’è pericolo. Càvalo fuori, amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà compatire.
Quegli mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse dalla custodia
il vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco vergognoso può mostrare il suo moncherino.
Simone Pau riprese, rivolto a me:
– Vedi? Te lo mostra. Grande concessione, di cui devi ringraziarlo! Suo padre, molti anni or sono,
lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata. Di’ tu,
amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio?
L’uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.
Simone Pau gliela chiarì:
– Che ne facesti, della tua tipografia?
Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.
– La trascurò, – disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau. – La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico. E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma. Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più sonare, dopo quanto gli è accaduto. Ma fino a qualche tempo fa, sonava nelle osterie. Nelle osterie si beve; e lui prima sonava, poi beveva. Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino. E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel
tanto che gli bisognava per spegnare il violino, e ritornava a sonare nelle osterie. Ma senti che cosa
gli capitò una volta, per cui… capisci? gli si è un po’ alterata la… la… non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita. Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto.
L’uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino.
– Gli capitò questo, – seguitò Simone Pau. – Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia. «Non c’è posto; mi
dispiace», gli dice costui. E l’amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare. «Aspetta», dice. «Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio… Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno…».
Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto. È introdotto in un reparto speciale, silenzioso;
e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. È una monotype perfezionata, senza complicazioni d’assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice. Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si rùguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata. «Fa tutto da sé» dice il proto al mio amico. «Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare». Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d’un mozzo di stalla… Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d’aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov’è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri luoghi più degni per l’esercizio della sua arte, per il culto della sua divinità. Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d’un giornale, tra le offerte d’impiego, quella d’un cinematografo, in via tale, numero tale, che ha bisogno d’un violino e d’un clarinetto per la sua orchestrina esterna. Subito il mio amico accorre; si presenta, felice, esultante, col suo violino sotto il braccio. Ebbene: si trova davanti un’altra macchina, un pianoforte automatico, un cosiddetto piano-melodico. Gli dicono: «Tu col tuo violino devi accompagnare quello strumento lì!». Capisci! Un violino, nelle mani d’un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell’altra macchina lì! L’anima, che muove e guida le mani di quest’uomo, e che or s’abbandona nelle cavate dell’archetto, or freme nelle dita che premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica a quindici giorni di carcere.
Ne è uscito, come lo vedi.
Beve, e non suona più.

Il « silenzio di cosa » di Serafino Gubbio

Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s’ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d’un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l’agiatezza con la retribuzione che la Casa m’ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch’io ne piangessi, ch’io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch’io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non  batto  ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un’operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d’eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m’uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei.
No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore.
La scena è pronta?
– Attenti, si gira...


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